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domenica 28 ottobre 2012

Il ladro di felicità - E il ti amo sbagliato


Non era dell'umore giusto e non aveva alcuna voglia di uscire, ormai era da tanto che si sentiva così. Mentre si guardava allo specchio, non poteva fare a meno di pensare che era stata una pessima idea accettare quell'invito, ma questa volta proprio non poteva rifiutare e poi aveva bisogno di recuperare dei documenti da alcuni suoi ex colleghi di lavoro. Non fu facile, ma vinse la sua riluttanza e la sua improvvisa asocialità che l'aveva assalito negli ultimi mesi. Non riusciva  a capire perché con tanti locali vicini, bisognava arrivare fino al mare per un locale che in tutta sincerità non era niente di eccezionale, e poi perché estendere l'invito anche a quelli dell'ufficio informatico con cui avevano condiviso solo ed esclusivamente la mensa aziendale? La serata trascorse tra chiacchiere, visi nuovi dal nome immediatamente dimenticato subito dopo la stretta di mano, brindisi e tanta noia mimetizzata dietro sorrisi tirati e stanchi. Finalmente, l'interminabile serata giungeva al termine dando quell'euforia che sapeva di liberazione accompagnata dall'eterna promessa bugiarda di ripetere quanto prima la serata. Era il momento dei saluti, degli abbracci e delle pacche sulle spalle, fin quando non giunse una richiesta inaspettata. Non amava guidare, la macchina era solo un male necessario da non usare appena possibile; e cosa ben peggiore odiava dare passaggi. Rimase, dunque, un po' basito dalla richiesta di accompagnare uno "sconosciuto" ubriaco del settore informatico, di cui non riusciva a ricordarsi il nome, ma che aveva intravisto spesso durante la mezz'ora di pausa pranzo. Non poteva dir di no e a malincuore accettò di riaccompagnarlo, tanto era di strada. Sperava che, durante la mezz'oretta abbondante di viaggio, si limitasse a poltrire sul sedile del passeggero senza volere intavolare un discorso. Non aveva la forza di parlare, soprattutto con uno sconosciuto ubriaco. Aveva bisogno di silenzio per riordinare le idee, per capire cosa si fosse rotto dentro di lui o quanto meno nulla che lo mettesse di cattivo umore o che lo facesse riflettere più del dovuto. Lo sconosciuto era eccessivamente entusiasta e non riusciva a stare zitto impelagandosi in salamelecchi pomposi, gesticolando in maniera ridicola come solo gli alticci sanno fare, non smettendo un attimo di parlare. I monosillabi di risposta fecero calare un silenzio imbarazzante e irreale. Il silenzio che cercava, ma che fu interrotto quando una mano si posò sul suo ginocchio, risalendo lungo la sua coscia. Non era un buon segno. Non prometteva nulla di buono. Era infastidito che qualcuno lo toccasse senza il suo permesso, soprattutto se con chi osava farlo, aveva scambiato sì e no un paio di parole in croce in tutta la sua vita e ancora meno durante tutta la serata. Stava cercando il modo migliore per porre freno a quella esuberanza non richiesta, ricorrendo alla scusa che stava guidando e non poteva distrarsi, visto anche la pericolosità della strada di montagna che stavano percorrendo. Niente, ritornò all'attacco. Questa volta le dita della mano furono accompagnate da un biascicato Mi piaci. Un brivido lo percorse lungo la schiena, non erano quelle le parole che voleva sentirsi in quel momento, non di certo da lui. Come osava?

- Sei ubriaco - disse lapidario, senza distogliere lo sguardo dalla strada e imboccando una lunghissima galleria -  hai alzato troppo il gomito. Non dire sciocchezze, nulla di cui potresti pentirti una volta sobrio.
- Non sono ubriaco, ho solo bevuto per farmi forza - piagnucolò - per avere il coraggio di dirti... - sembrava che l'allegria della sbronza stesse lasciando il posto al pianto - dirti che... Ti amo, ti ho sempre amato fin dalla prima volta che ti ho visto!

La macchina sbandò. Si sentì venir meno. Il sangue fluiva alle tempie che gli dolevano e gli battevano freneticamente. Non capì più niente e non trovò niente di meglio da fare che frenare di botto, lasciando sulla strada i segni e un forte odore di pneumatici bruciati. Frenò, in galleria, in barba al codice stradale e al buon senso, incurante di ogni pericolo. Non  era così, non era in questo modo, non era lui a...

- Che cazzo dici? - gli disse rabbiosamente voltandosi verso l'intraprendente ubriaco e fulminandolo con lo sguardo - Neanche mi conosci!
- Ma io... ti a... - incominciò a singhiozzare.
- Scendi! Ho detto scendi dalla macchina. - lo disse con un tono glaciale, di chi ha appena emesso una sentenza inappellabile.

Non riusciva a tollerare che uno sconosciuto pronunciasse qualcosa che desiderava ardentemente che gli dicesse Lui. Lui che era sparito nel nulla, avvinghiato ad uno dei suoi soliti silenzi cocciuti e sibillini. Quei silenzi incomprensibili che odiava dal profondo, ma a cui si aggrappava con tutte le sue forze perché credeva nella genuinità dei suoi sentimenti, perché sperava che finalmente si accorgesse di lui, che si rendesse conto di essere lui l'altra metà della mela. Non era pronto a ricevere quelle parole da uno sconosciuto, non di certo lì, in quel luogo sperduto da dio e dai santi. Era arrabbiato e deluso allo stesso tempo. Arrabbiato perché quelle parole tanto desiderate non arrivavano dalla persona che amava, da Lui, deluso perché aveva paura che non sarebbero mai arrivate, da Lui. Voleva urlare, voleva piangere, voleva semplicemente perdersi tra le sue braccia, ma Lui non c'era e questo gli faceva male. Si sentiva defraudato dalla sua felicità, derubato da un beone, per questo l'aveva fatto scendere dalla macchina, abbandonandolo lì in montagna, andandosene. Nessuna lacrima l'aveva mosso a pietà: il ladro di felicità andava punito.

Poche centinaia di metri più avanti si fermò, dopo tutto non poteva essere così crudele: se lui era stato condannato ad un silenzio imposto e ad un'assenza forzata che gli laceravano l'anima e il corpo, non poteva di certo prendersela con un incauto ubriaco piangente, abbandonarlo lì alla mercé di animali selvatici e del freddo. Fece retromarcia, abbassò il finestrino e gli intimò di salire. Era strano essere nella parte del cattivo, era la prima volta e dovette faticare non poco per convincere lo sventurato innamorato respinto. Il silenzio calò su entrambi e i singhiozzi sparirono presto per lasciar posto al russare del "ladro" e ai suoi pesanti rantoli. Lo riaccompagnò a casa. I primi raggi di sole dell'alba facevano capolino, illuminando la sua insoddisfazione. Il suo dolore, a lungo represso, tornò a galla. Non aveva sonno. Non aveva freddo ma tremava. Si cambiò. Si infilò le cuffie del suo lettore mp3. Si sentiva tremendamente infelice per riuscire a riposare bene. Decise di andare a correre. Intanto qualcosa scivolava lungo le sue guance. Non voleva farlo, ma non riusciva a smettere. Era troppo scosso. Con un po' di fortuna non l'avrebbe visto nessuno, magari tra un po' potrebbe piovere. Scese le scale di corsa, svoltò l'angolo il più velocemente possibile, come se qualcuno l'inseguisse e corse senza voltarsi indietro.

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lunedì 16 aprile 2012

Il ladro di felicità - Che cos'è l'Amore?


Era da molto tempo che si sentiva divorare dal silenzio. Si sentiva come catapultato in quel quadro di Goya: Saturno che divora i suoi figli, dove lui rientrava tra i figli in procinto di essere fagocitati, mentre il silenzio indossava i panni di Saturno nell'atto di divorarlo. Tante erano le piccole cose che non andavano che sommate tutte insieme formavano un boccone troppo grande e troppo amaro per essere ingoiato giù. Fu allora che decise di "fuggire" via per tentare di spezzare quel buco nero che diventava di giorno in giorno sempre più minaccioso. Un piccolo viaggio. Non troppo breve perché non avrebbe sortito alcun effetto, né troppo lungo perché l'ansia del cosa mettere in valigia avrebbe preso il sopravvento e avrebbe smontato l'impulso, riducendolo in briciole proprio come il suo cuore che perdeva pezzi, uno dopo l'altro. Una sorta di viaggio della speranza per tentare di arginare l'emorragia.
La scelta cadde su Roma: l'ideale per vagare senza meta, lasciandosi andare solo tra la folla. Non era ancora abbastanza forte da prendere il treno: quell'incubo l'aveva ossessionato per quattro lunghissimi anni. Appena chiudeva gli occhi, la mente in una sorta di malefica vendetta ripeteva quel flashback onirico, il treno che parte senza di lui, la sua corsa disperata per fermarlo, le sue grida, il crac interno e infine si accasciava a terra disperato, andando a pezzi. Ogni volta si risvegliava agitato, esausto, come se quell'incubo gli avesse risucchiato ogni energia lasciandolo inerme, a volte in un bagno di sudore, a volte come se avesse pianto. Optò, dunque, per un pullman a lunga percorrenza.
Durante il viaggio, non poté che rimanere nauseato dal suo vicino di posto. Non riusciva a tollerare i tradimenti, soprattutto quelli fatti alla luce del sole e mostrati a tutti come un vanto. Non c'era nulla di cui vantarsi nel tenere in piedi relazioni vuote costituite solo da involucri di facciata, in quel strano senso di fedeltà legato all'amante e non alla moglie, a quei desolanti doppi sensi che sembravano catapultare il tutto in una scena di un filmaccio comico-erotico all'italiana. Nauseato da tutto ciò, una volta sceso dal pullman, si inabissò nel caos capitolino abbandonandosi ad un'orgia di autoanalisi e di pensieri, riflettendo su quanto fossero effimere le relazioni, chiedendosi cosa fosse l'amore. Naufragava nei suoi pensieri e inesorabilmente, come la goccia d'acqua scava la pietra, la sua mente batteva lì scavando nel suo cuore a pezzi. Pensava al suo Amore. Pensava a come si sentisse sbagliato. Analizzava con precisione maniacale ogni singola azione cercando di trovare una sua falla. Torturarsi psicologicamente era ormai diventato il suo sport preferito. Lo sguardo perso nel vuoto, camminava meccanicamente senza riuscire a farsi coinvolgere dalla bellezza di Roma, assorto nei suoi pensieri, saliva e scendeva dalla metro, zigzagando senza meta.
Peregrinando, arrivò in piazza San Pietro, dove una comitiva di scolari francesi lo distolse per un attimo dai suoi affanni. Con una smorfia agrodolce, pensò che sarebbe stato proprio bello baciare il suo Amore proprio lì, in piazza, magari in un flash mob circondato da altre coppie gay che si baciano, a rischio di essere arrestati dalle guardie svizzere per atti osceni, sodomia o chissà per quale altra stronzata partorita dalle alte gerarchie vaticane, solo per il gusto di far diventare verdi d'invidia quel branco di bigotti. Pensando ciò, si diresse verso Castel Sant'Angelo cercando di districare l'ultima domanda che lo tormentava: che cos'è l'Amore?
Qualsiasi risposta che si dava era sempre incompleta o banale o entrambe le cose. Poi ad un tratto, lungo il ponte circondato dalle statue, l'illuminazione: un'anziana coppia era la risposta a questa domanda! Ecco, ora se gli avessero chiesto di spiegare cosa fosse l'Amore, avrebbe risposto senza ombra di dubbio indicando loro. Un signore e una signora anziani che presi singolarmente erano uguali a tanti altri uomini e donne, ma insieme erano avvolti da una luce accecante. Lui con passo svelto rallentava il suo camminare per uniformarsi a quello della compagna, per trasformarsi in bastone e allo stesso tempo in porto sicuro. Lei zoppicava vistosamente, ma mano nella mano con lui sembrava che danzasse e camminasse sicura come chi ha pace e non ha nulla di cui temere. Quegli sguardi ridenti che si lanciavano l'un l'altro, identici come la prima volta che si erano conosciuti, assolutamente indenni al passare degli anni. Quei sorrisi abbaglianti che sembravano un'alba serena dopo un temporale notturno: di una dolcezza e tenerezza disarmanti. Quel tenersi la mano accarezzando il dorso col pollice: erano il ritratto dell'Amore e della Felicità incarnatisi  in carne e ossa.
Avrebbe voluto fermarli e chiedere loro di svelargli il loro segreto, ma avrebbe rotto quell'alchimia magica che rende tutto perfetto e poi si sarebbe sentito un ladro di felicità, di una felicità non sua a cui si specchiava e tendeva. Li seguì con lo sguardo fin quando non li perse di vista: il silenzio che lo stava divorando non faceva più così paura. Si voltò con quella fragile pace raggiunta nel cuore, guardò il cielo e sorridendo corse senza voltarsi indietro.


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domenica 8 gennaio 2012

Il ladro di felicità - Il post-it giallo

Per un istante, il guazzabuglio di suoni e rumori assordanti fu squarciato dal silenzio. Il silenzio di qualcosa che si rompe. Era per caso un'altra tazzina del servizio buono di sua madre, quello del corredo che sopravvisse ad un roccambolesco viaggio di ritorno dall'America? No, ma era qualcosa di altrettanto fragile e delicato. Era forse un cuore? Era forse un equilibrio? Chi può dirlo? Non c'erano cocci ad evidenziare il misfatto. Non c'erano cocci da raccogliere. Uno squarcio di silenzio e poi il freddo. Quel freddo che ti entra dentro fino alle ossa e ti fa battere i denti. Sto per morire? Si chiese per un attimo, ma una smorfia sul viso passava già oltre questo pensiero. Non era la morte a spaventarlo. Rilesse lentamente il post-it giallo come per masticare meglio ogni singola parola, per gustarne il sapore e riuscire a digerirle meglio.
In quest'inizio di nuovo anno però non può mancare un post solo per te... Per te che hai pazienza e dopo un litigio mi guardi di nuovo col sorriso, a te che di notte mi abbracci e mi tiri calci :-) a te che canti a squarciagola in macchina e ascolti anche me senza tapparti le orecchie, a te che mi hai presentato persone importanti e non ti vergogni di noi, a te che sei bello e lo penso ogni volta che ti guardo, a te che hai pazienza di insegnarmi dove sbaglio e mi aiuti a crescere.... A te che hai deciso di condividere la tua vita con me ed è il regalo più bello che potessi farmi...
♥ You
Sapeva che quel cuore non era per lui. Quel messaggio non era destinato a lui. In quel momento era l'usurpatore, il ladro di felicità. Avrebbe voluto che quel post-it giallo fosse indirizzato a lui, ma non era così. Forse se si sarebbe sforzato avrebbe potuto fingere che fosse per lui, che fosse del suo Amore. Sì, ma quale Amore? Non sapeva dove fosse, con chi fosse, se lo pensasse... Si sentì soffocare. Quel silenzio calato, imposto da un altro gli pesava. Era un macigno che volente o nolente aveva accettato. Fece un respiro profondo e rilesse il post-it per l'ennesima volta. Perché non è per me? Come un lampo che rischiara la notte, quella domanda uscì dalla mente: da pensiero prese voce e divenne reale. Si risvegliò dal torpore, rischiava di morire assiderato. Chiuse la finestra, lì da cui era entrato il post-it nel suo "eremo isolato". C'era qualcosa di familiare nella scrittura, in quel cuore, in quel You. Ma certo! Riconobbe la scrittura. Un fremito lungo la schiena gli diede la certezza. Era lui! Era di Massimo. Quello che gli aveva fatto rimettere in discussione tutto sé stesso, quello che gli chiese il permesso di baciarlo e poi non lo fece, quello che gli aveva spezzato il cuore e lui l'aveva lasciato fare.
Ormai non l'amava più. Aveva impiegato quattro lunghissimi anni per addomesticare il suo dolore, per renderlo sopportabile e poi un giorno qualunque era guarito: aveva capito di amare più sé stesso che lui. Era andato avanti, nonostante il destino l'avesse messo a dura prova costringendolo a partecipare come osservatore alla costruzione di un amore che non era il suo. Lo scoprì per caso, quando un giorno di due anni fa, se lo vide sulle scale mentre scendeva mano nella mano col ragazzo del terzo piano. Il dottorino dell'appartamento accanto al suo, con la finestra della cucina che affacciava come la sua sul cortile interno del condominio. Quello che aveva ereditato l'appartamento dalla non troppo compianta signora Maria. Chissà se ora si rivoltava nella tomba sapendo che il suo adorato nipotino era un frocio come lui e viveva nel riprovevole peccato del sesso sfrenato nelle sue quattro adorate mura? Era la dura legge del contrappasso che punisce i rei bigotti sputa-sentenze.
Quell'incontro inaspettato fu un colpo al cuore e produsse un ciao sbiascicato. Pensò che non sarebbe sopravvissuto a tutto ciò. Invece riuscì a sopravvivere a quell'incontro, alle scene di sesso selvaggio sul tavolo della cucina e un anno fa all'inizio della loro convivenza. Era una sorta di piccola tortura: la loro felicità era quella felicità a cui lui tendeva ma che inspiegabilmente gli veniva negata. Poi aveva conosciuto l'Amore e quella piccola tortura della felicità di Massimo non era più una tortura, ma un modello di felicità a cui tendere o più semplicemente qualcosa che poteva farlo al massimo sorridere bonariamente o lasciarlo completamente indifferente.
Ora quel post-it portato beffardamente dal vento, l'aveva turbato nel profondo, aveva aperto uno squarcio. Era il segno che aspettava ardentemente, ma era arrivato troppo tardi e non veniva dal suo Amore. Era il segno sbagliato che pesava di più perché lui era circondato dal silenzio del coprifuoco che cala sulle relazioni sbilenche come la sua. Per un attimo cancellò dalla sua mente gli ultimi quattro anni della sua vita e provò ad immaginarla con Massimo. Immaginò la quotidianità, la convivenza, i baci, le coccole, il sesso... ma si accorse che quel post-it era il tassello avanzato. Qualcosa non quadrava nella sua immaginazione: niente combaciava. C'erano solo forzature e falsità: anche se fossero stati insieme, Massimo non gli avrebbe scritto un post-it come quello perché sarebbe roba da bimbiminKia alla tre metri sopra il cielo. Non aveva mai capito il perché di tutto quell'astio di Massimo nei confronti del romanticismo, anche se alcune forme estreme come quella dei lucchetti la trovava aberrante e svilente anche lui.
Non poteva tenerselo: era la dimostrazione fedele di una felicità non sua che per sbaglio era "scappata" dal palcoscenico principale per arrivare in platea tra le poltroncine degli spettatori. In quel caso, lui era un semplice spettatore e non uno dei protagonisti, se l'avesse conservato per sé sarebbe stato solo il ladro di felicità.
Prese le chiavi, il coraggio, il suo lettore mp3 e il post-it. Suonò il campanello, ma non rispose nessuno. Scostò  lo zerbino e infilò il post-it sotto la porta. Scese le scale e infilò l'uscio. Infilò le cuffiette del suo lettore mp3 nelle orecchie, per scacciare quel silenzio assordante che immobilizzava i suoi pensieri. Infilò le chiavi in tasca insieme al suo coraggio, o quello che ne rimaneva. Faceva freddo, ma non quanto nel suo cuore: lì l'inverno stazionava da un bel po'. Guardò il cielo, con un po' di fortuna di lì a poco avrebbe piovuto. La pioggia era l'ideale per lavare i pensieri. Fece quello che sapeva fare meglio, quello che gli riusciva bene: corse senza voltarsi indietro.